SOCIOLOGIA: STATO MODERNO E LA SUA EVOLUZIONE

STATO MODERNO E LA SUA EVOLUZIONE




STATO MODERNO E SOVRANITA’
La parola "Stato", adottata nel Principe (1513) di Niccolò Machiavelli per indicare il potere politico organizzato, deriva dal latino status, termine usato originariamente per designare una "posizione" o situazione, tanto pubblica e collettiva quanto personale e individuale. Nell'espressione status rei publicae il termine indicava la situazione dello Stato. 
Con il  tempo, l'espressione res publica ha finito per designare  una forma di Stato specifica, quella repubblicana, per l'appunto. Per alludere al genere, e non solo a una specie particolare, si è adottato invece il termine status, ovvero "Stato', che contraddistingue il lessico politico dell'Europa moderna.

Secondo Max Weber, il cambiamento di significato del termine "Stato" corrisponde a  un cambiamento radicale nella natura del potere politico verificatosi proprio in età moderna, quando fanno la loro comparsa gli Stati nazionali o territoriali, caratterizzati da solidi confini territoriali, da un efficiente apparato amministrativo (burocrazia) e dal monopolio dell'uso legittimo della forza.

L'attributo fondamentale dello Stato moderno è la sua sovranità: con questo termine si indica un potere sommo, da cui derivano tutti i poteri inferiori, e che non riconosce al di sopra di se stesso alcun'altra autorità da cui possa essere fondato.

I primi teorici della sovranità dello Stato furono il francese Jean Bodin e l'inglese Thomas Hobbes, che nelle loro opere auspicarono la formazione di uno Stato forte e unitario, capace di porre fine alle guerre interne e di garantire la pace, condizione necessaria per lo sviluppo economico e sociale. Attraverso la riflessione di Bodin e di Hobbes si precisa il concetto di un ordine apolitico", inteso come progetto razionale di costruzione di rapporti sociali pacifici, contrapposto a un ordine "naturale", caratterizzato dall'assenza di regole e quindi da una condizione di insicurezza generale. 

STATO ASSOLUTO 
La prima forma istituzionale di Stato moderno è stata la monarchia assoluta, il cui esempio più significativo è costituito dal regno di Luigi XIV di Francia, che rafforzò il potere centrale e monopolizzò i servizi. Il tratto essenziale di questa forma di Stato è l'accentramento del potere nella figura del monarca, che esercita in questo modo, direttamente o indirettamente, tutte le funzioni della sovranità.

La legittimazione teorica dell'assolutismo si trova nell'opera di Thomas Hobbes, il quale ritiene che esso costituisca la soluzione necessaria per uscire dalla condizione di guerra permanente in cui si troverebbe per natura il genere umano. 

Lo Stato assoluto è per Hobbes l'esito di un patto irrevocabile, con cui gli individui cedono a una sola persona o istituzione la libertà totale di cui essi godono per natura, ricevendone in cambio pace e sicurezza. Questo patto decreta dunque una sottomissione totale degli individui al potere politico, che diventa così la sola fonte legittima delle norme necessarie alla convivenza sociale. 

Secondo Hobbes, infatti, l'autorità dello Stato, lungi dal derivare da Dio, o comunque da un principio superiore trascendente, scaturisce semplicemente da una sorta di "contratto" stipulato dagli uomini per porre fine a una condizione originaria reputata insostenibile.

MONARCHIA COSTITUZIONALE
In secondo luogo, è da ricordare la monarchia costituzionale, le cui origini sono inglesi: esse risalgono al regno di Guglielmo III d'Orange e della moglie Maria, due principi  olandesi che nel 1689 posero fine al dominio personale assolutistico degli Stuart, restituendo al parlamento britannico le sue prerogative e ripristinando la libertà di esprimere le proprie idee politiche e di professare la religione protestante, che gli Stuart avevano cercato di estirpare dal paese. 
Il 13 febbraio 1689 Guglielmo e Maria giurarono fedeltà a un documento elaborato dai membri dei due rami del parlamento (la Camera dei Lords e la Camera dei Comuni), ovvero alla cosiddetta "Dichiarazione dei diritti" (Bill of Rights), che è considerata il modello di tutte le successive Costituzioni monarchiche dette "liberali", in quanto rispettose delle fondamentali libertà personali e politiche. 

Non a caso, fu proprio nel quadro di riferimento delle monarchie costituzionali che, tra i secoli XVIII e XIX, si sviluppò il liberalismo politico, corrente di pensiero e di azione che, assegnando precisi limiti al potere statale, si impegnava per il progressivo riconoscimento a tutti i cittadini dei diritti civili, ovvero quei diritti che definiscono uno spazio in cui il cittadino può agire liberamente, fuori dal controllo dello Stato.

La tradizione liberale prestò particolare attenzione anche all'articolazione interna del potere: se lo Stato assoluto è caratterizzato dalla concentrazione nelle stesse mani dei 3 poteri fondamentali (legislativo, cioè il potere di fare leggi; esecutivo, cioè il potere di amministrare lo Stato; giudiziario, cioè il potere di applicare la giustizia), il liberalismo ritiene invece necessaria una loro equilibrata distribuzione.

I diversi poteri vanno pertanto affidati a organi reciprocamente indipendenti, secondo il principio della separazione dei potere che costituisce un requisito classico sia del liberalismo sia delle odierne democrazie, di cui parleremo tra poco.

Il limite delle monarchie costituzionali fu l'esiguità della base elettorale: i cittadini che eleggevano i loro rappresentanti al parlamento erano una minoranza: in pratica solo i possidenti, spesso legati ai candidati da un rapporto di tipo clientelare.

DEMOCRAZIA LIBERALE
ln terzo luogo, bisogna elencare la democrazia liberale, che è la forma odierna del cosiddetto "Stato rappresentativo", in cui non sono rappresentati i ceti sociali o le corporazioni economiche, ma i singoli individui, considerati uguali di fronte alla legge.

Gli Stati rappresentativi ereditano dalla tradizione liberale il principio fondamentale della separazione dei poteri e l'attenzione ai diritti civili dei singoli, visti come limite invalicabile dal potere statale; inoltre sono "democratici" perché assumono il principio della sovranità popolare come fonte del potere stesso. 
Nelle moderne democrazie, pertanto, i singoli individui, considerati uguali di fronte alla legge, sono titolari dei medesimi diritti politici. Tra questi, il più importante è senza dubbio quello che sancisce la libertà di tutti i cittadini di partecipare attivamente alla vita della nazione, eleggendo i propri governanti e potendo essere eletti essi stessi mediante libere elezioni a suffragio universale. 


Nelle moderne democrazie rappresentative, il compito di orientare la scelta politica delle masse spetta generalmente ai partiti, complesse associazioni che si rivelano necessarie per stabilire un collegamento tra gli elettori e i candidati.

Come osserva il politologo italiano Giovanni Sartori nel suo libro La democrazia in trenta lezioni, la nozione di "democrazia" non è priva di problemi interpretativi, a partire dalla difficoltà di definire univocamente chi sia il "popolo" che deve governare. 

STATO TOTALITARIO 
Il Novecento ha conosciuto un esempio particolarmente significativo del processo di espansione dello Stato: si tratta dello Stato totalitario. Fenomeno politico del tutto nuovo, il totalitarismo si afferma nella prima metà del Novecento, quando, in nome di un'ideologia, alcuni Stati cominciano a regolare a tal punto la vita dei cittadini da imporre loro non soltanto le norme della civile convivenza. ma anche i valori e gli stili di vita. 
È dunque evidente che lo Stato totalitario è un sistema politico radicalmente opposto a quello rappresentativo (liberale e democratico), in quanto considera i singoli individui come meri elementi dell'organismo statale, che non deve provvedere alla loro tutela, ma anzi può servirsene per i propri fini.

Il totalitarismo, tuttavia, presenta alcuni tratti peculiari che impongono di distinguerlo dalle dittature, presenti in modo ben più massiccio in ogni epoca storica. La sua caratteristica più importante è il completo e assoluto assorbimento della società civile da parte dello Stato, ossia la sistematica abolizione di ogni distinzione tra dimensione pubblica e dimensione privata. In questa prospettiva, come abbiamo accennato, nei regimi totalitari ogni ambito della vita dei cittadini deve essere modellato sulla base dei principi politici vigenti e subordinato agli interessi strategici dello Stato: dagli aspetti economici e produttivi a quelli dell'educazione e della formazione, a quelli della vita personale.


HANNAH ARENDT
Per la comprensione del fenomeno totalitario è unanimemente ritenuto fondamentale il saggio intitolato Le origini del totalitarismo, scritto dalla filosofa tedesca Hannah Arendt nel 1951.

Convinta che i casi di dominio totalitario pienamente realizzato siano quelli della Germania nazista dopo il 1938 e dell'Unione Sovietica stalinista dopo il 1930, la Arendt individua i seguenti tratti distintivi dei regimi totalitari:
• La  presenza di un capo che svolge il ruolo di guida carismatica delle masse e che, come tale, è insostituibile;la sua dinamica volontà è legge suprema, vale a dire che gli eventuali improvvisi cambiamenti di linea politica da lui imposti non devono stupire; la sua parola, d'altronde, è considerata infallibile, anche se non necessariamente   veridica: le parole del capo istituiscono una situazione, non la descrivono; contrariamente al despota o al dittatore, il capo assume su di sé la responsabilità delle azioni compiute dai subalterni;
• assolutezza della leadership: il capo non può essere un primus inter pares, ovvero un individuo che guida un gruppo di persone al suo stesso livello, ma deve essere un superiore senza alcun vincolo, in quanto non può incontrare ostacoli nella realizzazione dei suoi disegni; l'eventuale confusione nella gerarchia di potere dei suoi sottoposti contribuisce a garantirgli un dominio incontrastato;
• appoggio delle masse e fanatismo: il popolo nutre una fedeltà incondizionata e illimitata nei confronti del capo, le cui mete sono "idealisticamente" preferite al perseguimento degli interessi personali;
• controllo di ogni aspetto della vita degli individui;
• nuova (distorta) concezione della realtà: il capo non basa le proprie decisioni su un esame realistico dei fatti, in quanto disprezza il calcolo delle conseguenze immediate delle proprie scelte; è incurante degli autentici interessi nazionali, ai quali antepone il perseguimento di fini anche irrealistici, ma comunque funzionali alla trasformazione delle masse in strumenti di attuazione dell'ideologia totalitaria;
• uso sistematico della propaganda;
• ricorso al terrore: tutti devono sentirsi costantemente in pericolo di vita, sia nel caso in cui scelgano di opporsi al regime, sia nel caso in cui appartengano alle categorie che il capo considera "nemiche". 
• riferimento continuo a un'ideologia per la quale il regime totalitario è mero strumento di attuazione di un processo ineluttabile. 

DEPORTAZIONE E CONCENTRAMENTO
Una tragica costante dei totalitarismi, a cui non si può non fare cenno, è il ricorso ai "campi di concentramento" . 
Con l'espressione "campo di concentramento" si indica una struttura carceraria perlopiù costruita all'aperto, in luoghi isolati, composta di grandi baracche e recintata con alti reticolati di filo spinato, che veniva utilizzata dai regimi totalitari per la detenzione non solo dei prigionieri di guerra, ma anche di tutti quegli individui che, a vario titolo, erano considerati pericolosi per la stabilita sociale. Nota anche come "deportazione", termine che allude a un allontanamento forzato, a una sorta di esilio, tale pratica era già nota alla Russia zarista, che vi faceva ricorso per i delinquenti comuni o politici: il totalitarismo la trasformò però in una pratica di massa, che colpiva in modo arbitrario e spesso casuale qualunque cittadino, in quanto appartenente a gruppi considerati ostili, o semplicemente in quanto accusato, talvolta senza alcun fondamento, di essere "nemico" dello Stato.

Nei campi di concentramento sovietici, più conosciuti come "gulag", i prigionieri erano crudelmente sfruttati per lavori che spesso non rispondevano neppure a uno scopo concreto; tuttavia questi luoghi non erano organizzati come "fabbriche di morte", perché da un gulag era possibile uscire vivi, perfino dopo molti anni di detenzione.

Non altrettanto può dirsi dei campi di lavoro nazisti, più correttamente indicati come "campi di sterminio", perché i prigionieri non solo venivano di fatto ridotti in schiavitù, ma attendevano senza speranza di essere "soppressi", in base al folle proposito, formulato in nome di un'aberrante ideologia e organizzato con precisione scientifica, di eliminare tutti gli individui che non rispondessero ai criteri della purezza razziale ariana. 

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