METODOLOGIA DELLA RICERCA: ESPERIENZE CLASSICHE DI RICERCA

 ESPERIENZE CLASSICHE DI RICERCA


HOWARD BECKER: UNO STUDIO SUI MUSICISTI DA BALLO
La ricerca di Becker si muove nel solco della scuola di Chicago e della metodologia che la caratterizza: quella della ricerca etnografica, basata sull'utilizzo dell'osservazione partecipante e finalizzata alla ricostruzione delle cosiddette subculture, cioè di quel complesso di idee, norme e modelli di comportamento che, all'interno della società globale, caratterizzano gruppi o categorie sociali particolari, in genere ignorati o poco conosciuti.

Come lo stesso Becker spiega nel suo saggio, l'esperienza di osservazione si svolge tra gli anni 1948 e 1949; suonando con varie orchestre in diversi tipi di locali, Becker raccoglie il materiale soprattutto nei momenti di lavoro, ma anche negli uffici dove i musicisti si recano alla ricerca di ingaggi. Prende appunti su ciò che vede e ascolta, ma riesce a rimanere in incognito: per la maggior parte delle persone, è solo un musicista tra gli altri. 

Ciò che interessa Becker è l'immagine che i musicisti hanno di se stessi, della loro professione, del loro ruolo sociale e, di riflesso, l'idea che si formano del loro pubblico. Secondo lo studioso, il musicista tende a pensarsi come un individuo "diverso" dagli altri, in qualche modo autorizzato, in virtù del suo talento e della sua creatività, a non curarsi delle convenzioni sociali, e nel contempo capace di una totale tolleranza nei confronti dei diversi stili di vita e di pensiero, preclusa invece alla maggior parte delle persone. 
A questa idea della propria "superiorità" fa riscontro un malcelato disprezzo nei confronti degli square, le persone comuni che costituiscono il pubblico degli stessi musicisti, privi di sensibilità estetica e prigionieri, in generale, di una mentalità ristretta.

Il conflitto in cui si dibatte il musicista, secondo Becker, consiste nel fatto che, se da un lato egli si sente superiore agli square e autorizzato a non curarsi dei loro giudizi, dall'altro lato però è costretto a dipenderne giacché essi costituiscono i suoi "clienti" e, dunque, la sua stessa fonte di sopravvivenza. 

EDWARD BANFIELD: UN OSSERVATORE A "MONTEGRANO"
Edward Banfield è l'autore del saggio "Le basi morali di una società arretrata, pubblicato nel 1958". L'opera è il resoconto di una ricerca condotta tra il 1954 e il 1955 sulla popolazione di Chiaromonte, un paesino della Basilicata in provincia di Potenza, nel libro ribattezzato, per ragioni di discrezione accademica, "Montegrano" 

La ricerca sugli abitanti di "Montegrano" rappresenta il tentativo di verificare la convinzione, la quale sosteneva che gli interventi di pianificazione del New Deal aveva maturato l'idea secondo cui in assenza di una cultura cooperativa e solidale adatta a recepirli correttamente, gli interventi dello stato sono inutili, in un contesto specifico, quello italiano, e in un momento storico particolare: quello della politica di aiuto ai paesi dell'Europa occidentale intrapresa dagli Stati Uniti negli anni del dopoguerra.

Benché il sociologo Arnaldo Bagnasco reputi inesatto definire Banfield un "antropologo", ritenendo più appropriata la qualifica di political scientist, è però innegabile che l'indagine dello studioso presenti tutte le caratteristiche metodologiche della ricerca etnografica: è svolta in una comunità di piccole dimensioni piuttosto chiusa verso l'esterno, è condotta tramite osservazioni sul campo e interviste. 

Banfield cerca quindi di capire quali siano i meccanismi di attribuzione e redistribuzione del potere e delle risorse in un contesto caratterizzato da scarsità, ossia povero. Cerca in particolare di comprendere il ruolo dei valori condivisi in quel contesto, di capire se essi siano un ostacolo alla modernizzazione, auspicata dal governo statunitense.

La risposta dello studioso è compendiata nel concetto di familismo amorale, espressione con cui egli designa la chiusura del gruppo familiare in se stesso, a scapito del senso civico e della solidarietà sociale. 
Gli abitanti di "Montegrano" raramente agivano per un fine superiore agli interessi immediati del loro nucleo familiare; la regola generale che ispirava il loro comportamento individuale era quella di massimizzare i vantaggi immediati per la propria famiglia, nella convinzione che anche gli altri avrebbero fatto lo stesso.

Banfield collegò il familismo amorale alla famiglia nucleare di piccole dimensioni che a lui parve come un gruppo grettamente chiuso e diffidente. 
Al contrario, secondo lo studioso la comunità familiare estesa alimenterebbe comportamenti sociali altruistici, cioè la solidarietà, la collaborazione, il senso del dovere collettivo, l'organizzazione.


STANLEY MILGRAM: L'OBBEDIENZA ALL'AUTORITA'
nel 1961 su un giornale locale compare un interessante annuncio: lo psicologo statunitense Stanley Milgram,  all'epoca professore all'università di Yale, cerca 500 persone di sesso maschile tra i 20 e i 50 anni, disposte a offrire, in cambio di 4 dollari più il rimborso spese, un'ora del loro tempo per partecipare a una ricerca scientifica su memoria e apprendimento, Chi fosse interessato trova nella stessa pagina il modulo di partecipazione da compilare e inviare. 

Milgram era all'epoca un giovane professore di 27 anni; a spingerlo a condurre questa ricerca che non verteva in realtà su memoria e apprendimento, ma sull'influenza sociale esercitata dall'autorità - era una riflessione sull'obbedienza come fattore importante nella genesi del comportamento, e soprattutto sulle forme più sconvolgenti che l'obbedienza assume all'interno della vita associata. 
Ma è davvero possibile, si chiedeva Milgram, che il principio dell'autorità sia così potente da azzerare il codice morale e la sensibilità del soggetto?

All'annuncio si presentarono volontari provenienti dalle fasce sociali più disparate, Milgram li divise in 3 gruppi corrispondenti a diverse categorie professionali, avendo cura che in ognuna di esse fossero rappresentate le diverse fasce di età. 

Alla ricerca partecipavano però anche due soggetti complici, cioè addestrati da Milgram a recitare una parte ben precisa: un signore dall'aspetto professionale interpretava il ruolo dello "sperimentatore", addetto a condurre l'esperimento, e un uomo di mezza età venne presentato ai partecipanti ignari come l'"allievo" impegnato in un'attività di apprendimento, di cui ognuno di loro, in qualità di "insegnante", avrebbe dovuto monitorare le prestazioni. 

Nello svolgimento dell'esperimento l"'insegnante" e l'"allievo" si trovavano in stanze attigue: potevano comunicare a voce, ma non si vedevano fisicamente. Al primo fu spiegato che avrebbe dovuto far imparare a memoria al compagno una lista di termini, e che a ogni errore commesso avrebbe dovuto punirlo somministrandogli scosse elettriche progressivamente più intense (fino a un massimo di 450 volt) tramite un sistema di leve collegato al corpo dell'allievo grazie a degli elettrodi. Le leve non erogavano alcuna scossa, ma il soggetto ignaro non poteva saperlo.

una volta iniziata la prova, l'allievo-complice cominciava deliberatamente a dare risposte sbagliate, mettendo così l'insegnante ignaro nella condizione di dover eseguire le istruzioni ricevute. A ogni scossa, l'allievo fingeva di lamentarsi, con gemiti che si facevano sempre più strazianti, via via che le scosse avrebbero dovuto essere più intense. 
Di fronte al disagio manifestato dal soggetto ignaro, interveniva lo sperimentatore-complice, che ribadiva la necessità di portare a termine la prova con frasi del tipo: «Prego, vada avanti», oppure: «L'esperimento esige che lei continui».

Prima di svolgere l'esperimento, Milgram cercò di ottenere una previsione sui suoi risultati, illustrando la situazione sperimentale a un gruppo di persone convenute a una conferenza sul tema "obbedienza e autorità" e chiedendo loro quale sarebbe stato, a loro giudizio, l'esito della prova. 
Tutti gli interpellati pronosticarono che i soggetti sperimentali, salvo pochi casi patologici, avrebbero rifiutato di obbedire a un ordine così atroce; a sostegno di tale previsione adducevano la convinzione che, in assenza di una concreta minaccia fisica, le persone sono in grado di decidere autonomamente i comportamenti da attuare.

ln realtà i risultati dell'esperimento furono ben diversi: il 62,5% dei soggetti ignari, pur con evidenti segni di turbamento, obbedì alle richieste dello sperimentatore portando a termine la prova. 
La percentuale conosceva delle oscillazioni in rapporto alle variazioni introdotte da Milgram all'esperimento-base, ma confermava in ogni caso un dato inequivocabile: l'acquiescenza del soggetto ignaro allo sperimentatore, percepito per se stesso come fonte di autorità. 
Tale autorità scaturiva da prerogative non personali, ma sociali: il ruolo da lui svolto all'interno della prova, la competenza che egli possedeva agli occhi del soggetto ignaro, i valori socialmente positivi che la sua figura incarnava.

Nel libro da lui pubblicato nel 1974 a resoconto della sua ricerca, Migram non si limitò a raccontarne lo svolgimento e a riportarne i risultati, ma condusse anche una riflessione generale sul problema che l'aveva condotto a intraprendere l'esperimento. 

La conclusione a cui giunse è: le persone sono sensibili all'influenza dell'autorità molto più di quanto si possa credere e di quanto esse stesse siano disposte ad ammettere preliminarmente. E spesso non è necessario che la figura che rappresenta l'autorità sia dotata di carisma o di prerogative particolari: perché le sue richieste appaiano legittime è sufficiente che essa sia percepita in una posizione "di controllo" all'interno di una data situazione. 

L'influenza esercitata dall'autorità crea infatti una particolare condizione psicologica, che Milgram definisce stato eteronomico, in cui il senso morale di un soggetto subisce una modifica di fondo: egli si sente responsabile non di ciò che fa' ma verso la persona che glielo prescrive.


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